«È dif­fi­ci­le in­for­ma­re sul­la mi­nac­cia a cui è espo­sta la pre­vi­den­za pro­fes­sio­na­le»

Intervista

Uno studio dell'Università di Zurigo valuta come relativamente buono il lavoro svolto da giornaliste e giornalisti durante la pandemia di coronavirus. Il professor Mark Eisenegger, co-autore dello studio, illustra gli attuali margini di miglioramento e come la crisi dei media abbia inciso sulla copertura mediatica durante la crisi legata al coronavirus.

Intervista: Daniel Schriber

Signor Eisenegger, che voto darebbe al giornalismo svizzero durante la pandemia di coronavirus?

Il mio voto sarebbe un «buono» scarso, quindi un 5-.

Nel primo semestre dell'anno, in alcune giornate, la copertura mediatica sull’argomento ha raggiunto il 70 percento. Come spiega una cifra così elevata?

Non abbiamo mai assistito a valori simili in precedenza: sebbene i temi della salute siano sempre prioritari nell’ambito della copertura mediatica, la questione del coronavirus è estremamente rilevante in quanto costituisce una potenziale minaccia per chiunque di noi. Il fatto che la crisi coinvolga diversi ambiti della nostra vita spiega ulteriormente l’importanza di questa notizia.

Mark Eisenegger, Professor am Institut für Kommunikationswissenschaft und Medienforschung

Valuta con un "quasi buono" la qualità della copertura mediatica in Svizzera nel periodo del coronavirus. Mark Eisenegger, coautore dello studio «Die Qualität der Medienberichterstattung zur Corona-Pandemie» (Qualità della copertura mediatica durante la pandemia di coronavirus)

In una circostanza simile, non vi è il rischio che, prima o poi, il pubblico si disinteressi dell’argomento a causa dell’intensa esposizione mediatica e non sia più disposto a recepire i contenuti trasmessi dai media?

Sì, indubbiamente questo rischio è reale. Studi dimostrano che inizialmente vi è stata una fase di «sovraesposizione mediatica da coronavirus», in cui anche chi non seguiva affatto le notizie è diventato un patito dell’informazione. Tuttavia, molto presto, questa sovraesposizione ha fatto sì che molti prendessero nuovamente le distanze dai media.

«Le statistiche non sono state inquadrate in modo sufficientemente adeguato: cosa ci dicono? come vanno interpretate?»

Sebbene, nel complesso, abbiate valutato i contributi mediatici di qualità relativamente alta, il vostro studio evidenzia anche delle lacune. Ad esempio, per quanto riguarda la gestione di cifre e statistiche.

Alcuni media hanno svolto un ottimo lavoro gestendo al meglio questi dati. Tuttavia, molti si sono concentrati troppo su «aridi» numeri a ritmo serrato. Le statistiche non sono state inquadrate in modo sufficientemente adeguato: cosa ci dicono? come vanno interpretate? Inoltre, non di rado, si è proceduto a raffronti problematici tra paesi.

I contributi mediatici interpretativi che forniscono informazioni approfondite sulla base di sostanziali ricerche giornalistiche rappresentano solo il sei percento circa di tutti gli articoli esaminati. Perché?

Negli ultimi anni abbiamo assistito a una perdita di risorse con la conseguente fuga di cervelli nell’ambito del giornalismo: le piattaforme tecnologiche come Google o Facebook stanno prosciugando le fonti di approvvigionamento pubblicitarie del giornalismo tradizionale. A questo si aggiunge la scarsa disponibilità degli utenti a pagare per le notizie: la conseguenza è una penuria di risorse finanziarie e di personale nel mondo del giornalismo.

La pressione del tempo è sempre più marcata per questo motivo?

Esatto. È una conseguenza dell'era online, contraddistinta da un flusso informativo incessante sull’arco di 24 ore. Sono stati gli stessi media a mettersi sotto pressione: farebbero meglio a rallentare il ritmo. Studi dimostrano che potenziali lettrici e lettori sono essenzialmente ancora disposti a pagare per ricevere approfondite informazioni di base, ma non per i news ticker che sono ottenibili ovunque in modo gratuito.

«Lo stesso vale per la previdenza per la vecchiaia: in definitiva, si tratta di temi la cui minaccia è molto più difficile da far capire poiché si situa in un futuro più ‹lontano›. La minaccia legata al propagarsi del coronavirus invece è attuale e molto concreta.»

Vi sono fatti altrettanto allarmanti su altri argomenti, come in materia di politica climatica e di previdenza per la vecchiaia, tuttavia su questi argomenti non vi sono dati aggiornati all'ultimo minuto. Perché?

Mentre il tema coronavirus è stato oggetto del 70 percento della copertura mediatica nei momenti di punta, quelli riguardanti il dibattito sul clima nel 2019 hanno raggiunto al massimo circa il 10 percento. La differenza risiede nel fatto che la minaccia posta dal cambiamento climatico è un tema più astratto per le persone. Lo stesso vale per la previdenza per la vecchiaia: in definitiva, si tratta di temi la cui minaccia è molto più difficile da far capire poiché si situa in un futuro più «lontano». La minaccia legata al propagarsi del coronavirus invece è attuale e molto concreta: basta pensare alle immagini di grande impatto mediatico, come quelle del trasporto delle bare di Bergamo.

L’importanza di articoli esplicativi appare evidente sulla scorta dell’esempio del settore assicurativo: la distinzione tra termini quali epidemia e pandemia, determinante per le compagnie di assicurazione, ad esempio è stata fonte di malintesi. Quale ruolo compete ai media nel quadro di simili dibattiti e, più in generale, in una situazione di crisi?

I media rivestono un ruolo di cruciale importanza in periodi di crisi: influiscono sulla misura in cui una crisi appare minacciosa, sulla pressione esercitata sulla politica o sulla misura in cui la popolazione è disposta a rispettare le disposizioni. I media devono informare basandosi su conoscenze convalidate: a tal fine, sono determinanti risorse specialistiche come quelle di natura «scientifica», che purtroppo però stanno diventando sempre più irrilevanti.

Quale soluzione si sente di proporre?

I media devono svolgere una funzione di allarme preventivo, ovvero attirare l'attenzione sulle minacce imminenti in tempo utile, ma senza generare inutili allarmismi. Dovrebbero inoltre svolgere una funzione di vigilanza: analizzare in modo critico l’operato di autorità, governo e potenti decision maker e metterne in discussione le decisioni in modo oggettivo senza fomentare scandali. Nel caso della crisi del coronavirus, in cui si è assistito alla sospensione dell'attività parlamentare, era particolarmente importante che i media svolgessero il loro ruolo di controllo, soprattutto nelle fasi iniziali. Tuttavia, è stato così solo in parte, soprattutto prima del lockdown.

Che cosa non ha funzionato in concreto?

Vi erano indubbiamente ottime argomentazioni a favore del lockdown, ma in questa fase i media non hanno posto un numero sufficiente di domande chiave. Porre queste domande e soppesare le diverse opinioni e argomentazioni è il presupposto che permette alla società di prendere decisioni intelligenti.

Dei 30 ricercatori oggetto della maggiore attenzione mediatica nel periodo in esame, solo tre erano economisti. Perché la situazione si presenta così e quale problema solleva?

La crisi legata al coronavirus va ben oltre il settore medico, ecco il problema, comporta tutta una serie di conseguenze, non da ultimo anche in ambito economico. I media hanno concentrato troppo la propria attenzione su virologi, epidemiologi e immunologi in modo unilaterale.

Quali voci sono mancate?

I media devono garantire resoconti diversificati in una situazione di crisi e, appunto, non occuparsi unicamente dei rischi per la salute, ma anche di altre conseguenze, come quelle economiche in caso di lockdown. Ci sarebbero state molte buone ragioni per dare più spazio agli economisti; lo stesso vale per i politologi che commentano le conseguenze del covid-19 sotto il profilo della libertà di opinione, per gli avvocati che si occupano delle implicazioni legali dell'home office o per i ricercatori in ambito socioeconomico che espongono le conseguenze della crisi in ambito sociale.

«Fino all'80 percento dei contributi mediatici esaminati fa riferimento agli esperti: questo dimostra che il giornalismo ha perso molta della sua capacità di inquadrare gli eventi in modo corretto.»

La pandemia di coronavirus non ha forse dimostrato come i giornalisti non siano in grado di sviluppare un ragionamento senza avvalersi del supporto di esperti? E innanzitutto, è opportuno che lo facciano?

La crisi generata dal coronavirus ha effettivamente dimostrato l’elevato grado di dipendenza dei media dagli esperti. Fino all'80 percento dei contributi mediatici esaminati fa riferimento agli esperti: questo dimostra che il giornalismo ha perso molta della sua capacità di inquadrare gli eventi in modo corretto. Tra gli altri aspetti, in particolare, si è fortemente ridotto il ruolo del giornalismo scientifico.

Quali lezioni può e deve trarre il giornalismo svizzero dal periodo contraddistinto dal coronavirus?

La tendenza inversa alla specializzazione è stata smentita nella crisi legata al coronavirus: il giornalismo ha bisogno dell’apporto di specialiste e specialisti e di vari settori in ambito scientifico, economico e sociale. Sarebbe opportuno investire maggiormente anche in questa direzione.

Ritratto

Mark Eisenegger è professore presso l'Istituto di scienze della comunicazione e delle ricerche sui media (IKMZ) e responsabile dell'Istituto di ricerca sulla sfera pubblica e sulla società (fög) dell'Università di Zurigo. Lo specialista di scienze della comunicazione è coautore dello studio «Die Qualität der Medienberichterstattung zur Corona-Pandemie», pubblicato dall’Istituto fög a fine luglio 2020.