«Dobbiamo essere tutti previdenti»
Come ha gestito la Svizzera il 2020, l’anno del coronavirus? E che cosa resterà della crisi quando avremo superato la pandemia? In questa prima parte dell’intervista suddivisa in due, la filosofa politica Katja Gentinetta ripercorre un anno straordinario e osa gettare uno sguardo al futuro nella discussione con Daniel Schriber.
Katja Gentinetta, come ha vissuto l’anno del coronavirus?
Personalmente durante il lockdown ho assaporato appieno la tranquillità e il rallentamento che ne sono conseguiti. Al contempo sono consapevole del privilegio di poter fare una tale dichiarazione. Le persone che a causa della crisi legata al coronavirus hanno temuto per la loro esistenza hanno ovviamente vissuto quest’anno in maniera del tutto differente. Un’esperienza è però stata condivisa da tutto il paese: se necessario, siamo capaci di reagire molto rapidamente alle nuove circostanze adeguando il nostro quotidiano.
Uno sguardo dalla prospettiva filosofica sull’anno del coronavirus: Katja Gentinetta.
Un esempio in merito è stato dato dalle scuole, che dall’oggi al domani si sono dovute convertire alle lezioni a distanza.
Giusto. Il sistema ha funzionato in maniera variegata, secondo i miei conoscenti che hanno figli. Ma anche nell’economia sono stati riscontrati meccanismi simili. Cose per cui prima bisognava lottare per ottenerle sono diventate improvvisamente la norma – in primis la possibilità di lavorare in home office oppure svolgere gli appuntamenti sotto forma di videoconferenza.
«Credo che in avvenire si guarderà con maggiore serenità in generale verso nuove forme di lavoro.»
Ritiene che continueremo a tenere sempre più videoconferenze anche in futuro?
Ne sono assolutamente sicura. In base alle esperienze di quest’anno mi sembra ovvio che d’ora in poi per ogni riunione sussisterà l’opzione di incontrarsi personalmente oppure online. Credo altresì che in avvenire si guarderà con maggiore serenità in generale verso nuove forme di lavoro. Ad esempio, lavorare da casa alcuni giorni della settimana sarà assolutamente normale.
Ma parliamo della «big picture», ossia la panoramica globale: come ha gestito la Svizzera il 2020, l’anno del coronavirus?
Secondo me non esiste una risposta univoca a questa domanda. Nella prima ondata in primavera la Svizzera ha saputo destreggiarsi molto bene. Era chiaro a tutti che dovevamo affrontare insieme il lockdown al fine di superare la crisi. La solidarietà era scontata. Dopo un’estate tranquilla, quasi normale, questa capacità di resistere è però venuta a mancare in autunno.
La seconda ondata ci ha colpito in pieno con grande veemenza.
A dire il vero in maniera significativamente più forte. L’«euforia da lockdown» della primavera si è dissolta lasciando il posto a una stanchezza palpabile. Le persone vogliono solo tornare alla normalità il più presto possibile. Ed è comprensibile, ma questo atteggiamento può anche essere pericoloso. Il sistema sanitario si trova ora al limite delle proprie forze e possibilità.
«Appellarsi alla responsabilità personale non ha funzionato ovunque.»
Come valuta l’operato del Consiglio federale?
Di principio ho grande rispetto per il modo in cui il governo ha gestito la crisi. In primavera quando ancora si sapeva molto poco di questo nuovo virus, il Consiglio federale ha dovuto prendere decisioni di ampia portata sulla base di informazioni imperfette e incomplete. I responsabili hanno imparato rapidamente, corretto regolarmente il tiro e agito costantemente in tempo utile nonché con avvedutezza e sulla base delle leggi esistenti. In altri paesi come la Francia è stato imposto un lockdown totale, mentre in Svizzera abbiamo usufruito di un margine di manovra nettamente maggiore. Da noi, quali cittadini e cittadine, ci si attendeva a giusto titolo che ci assumessimo responsabilità.
Ma...
Appellarsi alla responsabilità personale – ossia la responsabilità del singolo nei confronti di sé stesso e della collettività in generale – non ha purtroppo funzionato ovunque. Evidentemente molte persone necessitano ancora di chiare disposizioni o divieti per fare qualcosa o evitare di fare qualcosa. Per un paese, dove la responsabilità personale ha un valore elevato a cui si è fatto ricorso da sempre nella storia, questo risvolto mi ha fatto molto riflettere.
La pandemia si è rivelata un test di resistenza per il federalismo. Ritiene che questo test sia stato superato?
Purtroppo ho forti dubbi in merito. In primavera i Cantoni hanno criticato la Confederazione per aver imposto il proprio volere a tutti. Quando poi la Confederazione ha lanciato la palla ai Cantoni e questi ultimi hanno dovuto assumere responsabilità in estate e all’inizio dell’autunno, sono sorte rapidamente pretese di misure nazionali unitarie. Una cosa è rivendicare l’indipendenza, l’autonomia e la libertà decisionale, un'altra assumersi poi effettivamente questa responsabilità. E ciò non ha funzionato ovunque. Penso ad esempio a quanto tempo ci è voluto affinché in Svizzera ci si potesse testare in maniera più o meno capillare. La crisi ha messo in evidenza anche i limiti del nostro sistema.
In relazione al coronavirus sorgono altresì numerose domande relative all’assicurabilità. In quali settori occorrono adeguamenti in tal senso?
La necessità di intervento si è palesata in primavera nella cosiddetta economia di piattaforma: le persone senza solidi contratti di lavoro, la cui esistenza dipende però dai loro impieghi professionali, ad esempio per Uber Eats, si sono ritrovati senza nulla dall’oggi al domani. La flessibilizzazione del mercato del lavoro è una realtà, che comporta sicuramente anche vantaggi. Per questo è molto importante che tali forme di lavoro siano altresì assicurate, a prescindere dal fatto se le persone vengono impiegate nel quadro di un’assunzione fissa o in qualsivoglia forma di «indipendenza».
Si dice spesso che in Svizzera vige la mentalità del casco totale, ossia tutti i rischi inclusi. Lei è d’accordo?
Siamo abituati a standard elevati. E quanto più elevato è lo standard, tanto più si ha da perdere. Da un lato siamo obbligatoriamente coperti tramite le assicurazioni sociali. Possiamo altresì assicurarci facoltativamente contro ogni evenienza, pagando il rispettivo premio, s’intende. Tuttavia, non siamo coperti contro tutti i rischi. Forse è questo il problema: ci attendiamo che anche in caso di emergenza tutto funzioni bene e che qualcuno provveda in tal senso. Ma questa è un’aspettativa sbagliata.
«Mi sarei aspettata che le imprese avessero maggiori riserve per far fronte a una crisi.»
A chi sta pensando?
Penso tra l’altro alle giovani imprese, che sin dal primo annuncio del lockdown si sono rivolte allo Stato. Ovviamente è stato lo Stato a imporre il lockdown; tuttavia, mi sarei aspettata che le imprese avessero maggiori riserve per far fronte a una crisi. Dobbiamo essere tutti previdenti. Ciononostante, la Svizzera se l’è cavata meglio del previsto, come emerge dai dati recenti.
Come si spiega che in un paese dove si promuovono valori come la libertà economica e l’indipedenza – e che si profila in tal modo da decenni – si chieda aiuto allo Stato alla prima grande folata di vento?
Ribadisco: è lo Stato ad aver ordinato il lockdown, ma non ha però bloccato tutte le attività imprenditoriali... Alcuni hanno saputo sfruttare il margine di manovra.
Abbiamo perso, quale società, la capacità di saper gestire in maniera riflessiva gli eventi e i rischi imprevisti?
Mi consenta di differenziare tra rischi e crisi. I rischi vengono assunti consapevolmente, al fine di conseguire un guadagno, sempre che il calcolo ne preveda la possibilità. Le crisi invece sono raramente prevedibili e arrivano all’improvviso senza alcuna avvisaglia. Pertanto, se un rischio potrebbe anche essere definito come evento calcolato, a cui ci si espone di propria iniziativa, una crisi necessita di un rapido intervento e di rapide decisioni in un clima di grandi incertezze. Pertanto si tratta di due scenari completamente differenti.
Ma questo non risponde ancora del tutto alla domanda: che cosa ci dice la crisi legata al coronavirus sul nostro modo di gestire i rischi in generale?
In realtà non siamo più abituati al fatto che qualcosa possa non funzionare bene. Anche perché proprio la Svizzera è stata risparmiata dalle grandi crisi negli ultimi decenni. Ci cullavamo in una sicurezza illusoria e credevamo di poter continuare così per sempre. Ci siamo ormai abituati a uno standard di vita molto elevato. Ora però dobbiamo anche accettare l’idea che questo non è garantito – e che non cade dal cielo, come suggeriscono sempre più le voci dell’approccio antieconomico – bensì richiede l’impegno comune di tutti noi.
Ritratto:
Katja Gentinetta, dottore e filosofa politica. Attiva quale pubblicista, docente universitaria e in seno a consigli di amministrazione. Scrive come editorialista di economia per la «NZZ am Sonntag» e per quattro anni, assieme al caporedattore Eric Gujer, ha condotto la trasmissione «NZZ TV Standpunkte». Membro tra l’altro del CICR, accompagna le aziende e le istituzioni nel loro sviluppo strategico e nelle sfide socio-politiche. Pubblica regolarmente articoli e tiene conferenze in patria e all’estero su questioni sociali ed economiche. Katja Gentinetta ha 52 anni e vive con il marito a Lenzburg.